Pietro Scotti: 1936 – 2004, una biografia.
Sarà perché gli era capitato di nascere dentro quel cielo di Genova, sopra un porto che era ancora un porto. Sarà perché la città gli entrava ogni giorno negli occhi, dal terrazzo, così aggettato sull’antico Palazzo San Giorgio. Sarà perché quei vicoli e quelle piazzette, così precipiti a Sottoripa, erano ogni giorno il suo campo di calcio senza reti, il suo giro d’Italia disegnato col gesso sull’acciottolato, il suo prato da golf percorso giocando la lippa, il suo bosco di fate e di gnomi, di alberi e di fiori, di ruscelli e di animali. Sarà perché a quindici anni, ancora in pantaloni corti, scelse l’officina invece della scuola e smise subito d’essere fanciullo, imparando il suo genovese in quella Via Madre di Dio d’allora, botteghe e rigattieri, artigiani e rincorrersi di ragazzi, voci e colori che spariranno in una colata di cemento della Genova anni sessanta.
O forse sarà semplicemente perché a un prete di San Lorenzo, la sua parrocchia, un giorno, venne in mente di mettere su una compagnia recitante, rigorosamente solo maschile, per passatempo e per diletto, per tenere occupati quei ragazzi che crescevano in fretta e l’oratorio gli andava sempre più stretto, quei loro voli di fantasia che era bene in qualche modo acquietare senza tarpargli le ali.
I sentieri degli innamoramenti sono infiniti e imperscrutabili. Anche innamorarsi del fare teatro, di salire sul palcoscenico, di recitare, è un innamoramento difficile da spiegare, per uno così apparentemente sotto traccia, una parola di meno che una di più, un sorriso che stenta a diventare risata, uno sguardo senza sfide e così addolcito da un filo appena di malinconia.
Ma avvenne. A un certo momento della vita, Pietro Scotti si scoprì innamorato di teatro. In parrocchia, forse. Per gioco, certamente. Una piccola radice che avrebbe fruttificato molti anni dopo.
Più o meno s’era nella seconda metà degli anni cinquanta.
I testi delle commedie si trovavano alla Libreria dell’Arcivescovado, in Piazza Matteotti, a fianco del portale della casa vescovile, dove abitava il Cardinale Siri. Erano trame semplici, racconti brillanti di giovani amori dove non si vedevano mai ragazze, gialli improbabili senza ombra di violenza, ricostruzioni storiche tanto fantasiose quanto approssimative, storie edificanti di varia umanità e di incerta sceneggiatura.
Il suo primo teatro fu uno splendido e decadente salone al primo piano del trecentesco Palazzo Squarciafico, che ancora oggi , ben ristrutturato, si affaccia sulla medioevale Piazza Invrea, vicinissimo alla chiesa Cattedrale di San Lorenzo.
A un certo momento, anche per ragioni di sicurezza, le rappresentazioni dovettero però traslocare nella Sacrestia della Cattedrale, con accesso da Via Tommaso Regio, che fu così il suo secondo teatro. La sacrestia era vasta e vagamente grandiosa come si conviene alla sacrestia di una cattedrale: una fila di antichi confessionali sulla destra, grandi armadi alle pareti che contenevano le vesti liturgiche, una profonda nicchia con un altare di marmo bianco. Lo zio falegname costruì un palco completamente smontabile, vero e proprio capolavoro di ingegneria del legno e di abilità artigianale. Sotto i suoi ordini, attori e volenterosi montavano il palco e lo smontavano alla fine della rappresentazione. Un buon parrocchiano, di mestiere elettricista, si occupava delle luci. Ragazze e pie donne erano addette a sistemare le file di sedie per il pubblico.
La rappresentazione forse più memorabile di quella stagione di teatro da dilettanti assolutamente allo sbaraglio, fu un gagliardo "Cardinale Lambertini", celebre opera teatrale di Testoni, cavallo di battaglia di Ermete Zacconi, prima, e di Gino Cervi, dopo. Pietro Scotti vi interpretò, con molta immedesimazione, la parte del giovane Carlo, il figlio del cameriere del Cardinale, l’innamorato della bella Ilaria, della quale s’invaghisce però il malvagio comandante delle truppe spagnole d’occupazione.
Dopo le tante recite parrocchiali, Pietro Scotti si prese una pausa molto lunga. La vita lo portò inevitabilmente altrove, dove è giusto che lo portassero il matrimonio, la nascita delle figlie, il lavoro. Il teatro messo nel cassetto dei sogni, senza gran rimpianto, probabilmente, ma con quel pizzico appena di rimorso che si sente per le cose che hai in qualche modo dentro e che ti sarebbe piaciuto fare.
Nella vita, del resto, i tuoi sogni, se sono davvero sogni, puoi sempre tirarli fuori dal cassetto, genuini come quando ve li avevi riposti.
Per Pietro Scotti, questo avvenne, grosso modo, nei primi anni del decennio ’70.
L’occasione gli fu offerta da Giorgio Grassi, che teneva audizioni e scuola per il Teatro Dialettale della Regione Liguria, nel generoso tentativo di recuperare quella tradizione di teatro popolare di grande spessore che aveva avuto in Gilberto Govi – morto nel 1966 – il suo inarrivabile epigono.
La sintonia fra i due – Giorgio Grassi e Pietro Scotti – fu immediata, tanto che l’esordio del nuovo attore avvenne subito, senza tanta scuola di recitazione di mezzo. La sua voce naturalmente impostata per la scena convinse Grassi a farlo esordire in "Ghe’a ‘na votta un paise", dove interpretava – un po’ paradossalmente e forse per via di quel cognome in comune con il famoso Tino Scotti, il milanesissimo cavaliere ghe pensi mi di quei tempi – la parte di un milanese, dall’inevitabile nome di Ambrogio.
Da quel momento in poi, la sua crescita professionale sulla scena fu costante e continua.
Finalmente, aveva tirato fuori dal cassetto il suo sogno di tanto tempo prima. Certo, avrebbe sempre navigato dentro quel teatro minore che è un po’ ovunque il teatro dialettale, oggi più di ieri. Ma questo non era importante. Quando sali su un palco senti comunque l’odore polveroso del legno, quando entri in un personaggio vivi comunque in simbiosi con una proiezione onirica di te stesso, quando riesci a far sorridere una vecchia signora in prima fila o una giovane ragazza laggiù in fondo alla sala senti comunque di rappresentare un’allegoria positiva della vita.
Strana passione, il teatro, vero Pietro Scotti?
Una passione che diventa sempre più impegnativa. Come quando la sera, dopo una giornata di lavoro, devi andare alle prove e magari te ne staresti volentieri in casa. Come quando la domenica pomeriggio, invece di andare a vedere la partita, ti devi presentare in scena. Come quando devi prendere la macchina e andare in giro per i paesi della Liguria facendo tardi, con quel gran caldo sotto le luci del palcoscenico.
Impossibile ricordare i tanti titoli del suo repertorio, sgranato lungo una trentina d’anni di recite. Basterà ricordarne qualcuno, in ordine sparso.
"L’ommo e so stracce" (1976), con la regia di G. Grassi; "Casello 45" (1981), dove è il figlio di Mario Dighero, un mostro sacro del teatro dialettale genovese; "L’amo o resta de longo un figgeu"(1982) traduzione e adattamento genovese del famoso "Gallina vecchia" del fiorentino Augusto Novelli, dove dà asciutto risalto – come scrive la critica – all’uomo maturo che aspira a sposare, appunto, la gallina vecchia; "Vitta co-a seuxoa" (1983), dove dà volto e voce a un vedovo in piena crisi esistenziale; "A rostie sotto a ceine" (1986), commedia che rappresenterà, nel 1995, anche il suo esordio di regista, con la figlia Alessandra in scena, che seguirà poi per un po’ le orme paterne, con buon successo di giovane attrice e di giovane regista; "Regio de dina" (1989), dove, assieme alla grandissima Santa Grattarola, dà vita a una coppia di astuti e comicissimi genitori; "I rattaieu" (1992), nei panni di un imprenditore che conta buone raccomandazioni a livello politico e ministeriale; "A foa do bastento" (1994) in cui veste i panni di un vecchio e accanito fumatore che si ribella agli ordini del medico della casa di riposo che ospita lui e altri vecchi ribelli; "Delitti all’aegua de reuza" (1996), un giallo comico con vaghe reminiscenze di "Arsenico e vecchi merletti"; "L’imbroggio de Arensen" (1998), commedia nella quale veste la maschera di un papà di mezza età – e un po’ oltre – che ha il forte desiderio di un nipotino che non arriva; "Semmu misci scia marcheisa" (2000), nella parte del maggiordomo che tenta di nascondere in ogni modo alla sua padrona, della quale è segretamente innamorato, le disastrate condizioni economiche in cui essa si trova; "O barba Gioxe" (2002) , dove, diretto dalla figlia Alessandra, offre, come scrive la critica, una delle sue più belle interpretazione, dando umanità alla figura un pensionato postelegrafonico moralista che si adopera con molto buon senso per mettere a posto i comportamenti non esemplari dei condomini; "Innamoase a settantanni" (2004), nelle vesti di un vecchio benestante, a suo tempo attore di buona fama, che deve farsi assistere da una vecchia badante, che fu oggetto del suo innamoramento all’età di sedici anni. Rifiorirà l’amore e….
Scriverà la critica di questa, che resterà la sua ultima interpretazione: "…Pietro Scotti interpreta la parte dell’anziano innamorato rivendicando il diritto all’amore con sincera convinzione…"; "….non certo ultimo per bravura Pietro Scotti che, impegnato nel personaggio di Maxo per tutta la durata della commedia, sa essere convincente nei toni sentimentali e saggiamente comico nelle situazioni più inconsuete…".
La giuria per il teatro dialettale genovese GENOVA CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2004 lo premierà alla memoria proprio"…per la sua memorabile interpretazione nella commedia “Innamoase a settantanni” di Gian Carlo Migliorini".
Nell’agosto di quel 2004, infatti, Pietro Scotti se ne era improvvisamente andato.
Di lì a poche ore avrebbe dovuto salire sul palco, a Varese Ligure. Per far sorridere e forse un poco commuovere il suo pubblico, come si diceva una volta, in una notte serena, appena ventilata, fresca di mare e di appennino.
Non fu così. Era arrivato al suo capolinea. Scese in silenzio dal treno della vita, senza neanche mugugnare, come gli sarebbe spettato da buon genovese. Chissà! Forse persino con un sorriso, rivivendo in un attimo la sua splendida vita.
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